Le prime due settimane di novembre hanno rappresentato una catastrofe per il Centroamerica. Due uragani d’intensità enorme (il 3 novembre Eta di categoria 4, il 17 novembre Iota di categoria 5) in successione si sono abbattuti sulla costa atlantica e sulle zone interne di quei Paesi, investendo in pieno soprattutto il Nicaragua, l’Honduras e il Guatemala, ma causando distruzione e morte anche in Costa Rica, Panama, El Salvador, Belize, Messico e Colombia.
Il 2020 è stato un anno record per numero di tempeste e cicloni tropicali, superiori anche alla stagione 2005, l’anno di Katrina, e quando diventano uragani propriamente detti, i dati mostrano che anche la loro potenza distruttiva sta aumentando costantemente nel corso degli anni, parallelamente all’aumentare delle temperature globali delle acque.
I cambiamenti climatici in corso li rendono quindi fenomeni sempre più frequenti e devastanti. Mai prima d’ora si erano verificati in così rapida successione e violenza distruttiva. Definirli “naturali” rischia di nascondere le responsabilità di un modello di sviluppo globalizzato vorace depredatore di risorse, produttore di veleni e scorie, distruttore di equilibri ambientali e sociali, che sta rendendo l’esistenza di noi umani e degli altri viventi su questo pianeta sempre più precaria.
Se il riscaldamento globale ha effetti su tutta quanta la Terra, ciò che viene fatto a livello locale può comunque fare la differenza tra ridurne le conseguenze o aggravarle. Vediamo il caso dell’Honduras.
HONDURAS ALLAGATO
Tutto il Paese è stato devastato, in particolare la zona nordoccidentale di primo impatto, quali i dipartimenti di Atlantida, Colón, Santa Barbara, Cortés. In quest’ultimo si trova la Valle di Sula, il polo economico dell’Honduras, completamente sommersa dall’acqua per lo straripamento dei fiumi che vi scorrono. Danni ingenti anche in Yoro, El Paraíso, Olancho, Choluteca.
Le immagini aeree rivelano la magnitudine della distruzione. I settori che hanno riportato i danni più gravi sono l’agricoltura e l’allevamento. Dati preliminari dei produttori delle aree più colpite del Paese rilevano perdite superiori alle 80.000 tonnellate di olio di palma africana, oltre 15.000 ettari di canna da zucchero, 3.700 ettari di banano, coltivazioni di ortaggi e frutta, più svariate migliaia di ettari di grani basici quali mais, fagioli, riso, oltre ai danni alle infrastrutture: abitazioni, edifici, ponti e vie di comunicazione.
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